Lo ha ribadito la Corte di Cassazione nel recente arresto in commento respingendo il motivo ricorso con il quale la difesa dell’imputato aveva prospettato una diversa qualificazione del reato (nella specie quello di violazione di corrispondenza, art. 616 c.p.) nella condotta del datore di lavoro che si era introdotto nella casella mail del dipendente prendendo cognizione dei contenuti e degli allegati di alcuni messaggi. Secondo i giudici di legittimità, infatti, la casella di posta elettronica rappresenta un sistema informatico e nello specifico uno spazio di memoria di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi o informazioni di altra natura di un soggetto identificato da un account registrato presso un provider del servizio. L’accesso a tale spazio di memoria, quindi, costituisce senza dubbio un accesso a sistema informatico specie se si considera che lo stesso è protetto da un nome utente e da una password, il che rivela la chiara volontà dell’utente di farne uno spazio a sé riservato. Non può, pertanto, essere accettato il paragone con la semplice cassetta delle lettere (la cui intrusione configura il reato di violazione di corrispondenza) in quanto la stessa non rappresenta “una espansione ideale dell’area di rispetto pertinente al soggetto interessato” ma un contenitore fisico di elementi solo indirettamente riferibili alla persona.
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